mercoledì 20 marzo 2013

CAPITOLO 11

Beh devo dire che non ci sto capendo più niente...
Lunedì mi sembrava di rivivere le atmosfere natalizie, data la neve, ieri finalmente sembrava che la primavera fosse arrivata con un cielo spettacolare ed una temperatura gradevolissima ed oggi...
una pioggia incessante che inzuppa i piedi e annerisce l'umore.
Vabbè speriamo bene perchè davvero non se ne può più!
Sta sera ho anche lezione di tango e non ho molta voglia di uscire, ma inforcate le scarpe farò il mio dovere di tanghera!!!
Infine abbiamo scoperto che il 2 giugno ci sarà il saggio.. e sono dovuta arrivare alla veneranda età di 33 anni per fare il mio primo saggio!
Alla parola saggio mi viene in mente una ragazzina di 6/8 anni con un tutù rosa e il codini ai lati della testa.. vabbè vi renderò edotti tramite le foto che faranno gli amici.. speriamo che non siano troppo sfocate perchè vorrà dire che si saranno fatti grasse risate.
Vi lascio con l'11 capitolo.
Buona lettura e buona giornata!! :)



CAPITOLO 11


Erano passati già due mesi ed il tempo era davvero volato. Il lavoro non era male, forse il migliore che avesse mai avuto. Lo stipendio era buono. Le colleghe…
Beh, a parte la ragioniera e la “compagna di banco”, le altre le evitava bellamente.
Francesca invece continuava a tampinarla.
Francesca. La sua situazione non era per niente migliorata. Se possibile era peggiorata. Si potevano contare sulle dita di una mano i giorni che non era stata ripresa, a torto o a ragione, con strigliate memorabili.
Lei, da parte sua, rispondeva bofonchiando mezze frasi e sbattendo qua e là il materiale d’ufficio.

Durante la pausa pranzo guardando fuori dalla finestra uno strano collegamento di idee la fece pensare a Luc. Era da molto tempo che non si faceva sentire. Forse era troppo preso da impegni di lavoro tanto da non poter scrivere una mail o telefonare. Ma le sembrò subito un’ipotesi poco credibile.
Pensò che poteva telefonargli. No, il suo maledettissimo orgoglio glielo impediva.
In quei giorni aveva avuto la tentazione di scrivergli. Un paio di volte aveva buttato giù qualche riga, ma poi, rileggendo, cancellava tutto.
Se non si era fatto sentire era perché non aveva voglia di farlo.
Eppure non riusciva ad essere arrabbiata con lui, semplicemente si intristiva e si faceva mille domande alle quali dava una risposta peggiore dell’altra.
Rientrò in ufficio di cattivo umore senza una ragione specifica: il pensiero di Luc, e l’ufficio in sé cominciavano a pesarle.
Stare lì dentro per otto ore era diventata una fatica.
Non per il lavoro in sé, ma per l’ambiente, che purtroppo o per fortuna, aveva imparato a conoscere bene.
Un covo di vipere.
No, non stava assolutamente esagerando. Appena si allontanava poteva sentire le pareti che sussurravano malignità, sulla collega con i capelli troppo rossi, sulla tipa con la gonna troppo corta “per la sua età”, e via così. “Forse Francesca non aveva poi tutti i torti ad essere paranoica” pensò.

***************

Le vacanze di Pasqua erano passate con una velocità sorprendente, tanto quanto quelle estive le passavano sotto il naso quando andava a scuola.
Decise all’istante che sarebbe stato bello fare un week end da qualche parte. Magari a Roma.
Non da sola. Sarebbe stata una vera tristezza.
Sapeva già a chi chiedere. Un po’ di vacanza avrebbe fatto bene anche a lei, magari avrebbe smesso di pensare al suo giapponesino, ammesso che lo facesse ancora.
Si rintanò in bagno, lo spazzolino in una mano e il telefonino nell’altra.
« Hmm…»
« Pronto, Giulia? Ma che ti prende? E’ uno scherzo? »
Sputò il dentifricio nel lavandino, non si aspettava una risposta così rapida.
Stef lanciava il telefono nella borsa che di conseguenza veniva sepolto da una marea di ciarpame –l’essenziale la corresse lei una volta - e di solito passavano almeno cinque minuti prima che lo trovasse, così l’aveva colta impreparata.
«No, ciao, mi stavo lavando i denti… ho una proposta per te!»
Si spiegò velocemente e come aveva previsto accettò, con una riserva.
Il suo capo le avrebbe concesso un paio di giorni di ferie?
Le avrebbe fatto sapere.
Tornò al lavoro, in realtà attendeva con impazienza la telefonata dell’amica.
Mezz’ora dopo il telefono vibrò e Stef con lui.
«Allora?»  chiese speranzosa.
«Me le ha concesse ma tra una decina di giorni. Ti va bene? Pensi di resistere senza ammazzare nessuno? »
Andava benissimo.
Il solo pensiero di andare a Roma l’aveva tirata fuori dal guscio di torpore e svogliatezza nel quale si era infilata.

Entrò in casa con un largo sorriso sulle labbra.
Pensava già a cosa avrebbe messo in valigia.
In cucina si accorse che anziché pensare a riempire la valigia doveva prima riempire  il frigorifero. Era rimasta anche senza latte, l’indomani avrebbe dovuto fare a meno del cappuccino.
“Assolutamente no!”.
Oramai rivitalizzata dall’idea di cambiare aria si diresse al supermercato baldanzosa.
Prese l’auto perché tornare con le buste pesanti sotto quel caldo, scoppiato improvviso, non era una bella prospettiva.
Uscendo dal parcheggio sperò di ritrovarlo al ritorno, ma era una pia illusione. Dallo specchietto retrovisore vide un’auto con le frecce accese già pronta a soffiarle il posto. Fece spallucce ed uscì.
Il traffico era intenso. La maggior parte della popolazione cittadina stava uscendo o era appena uscita dagli uffici.
Ma Stef era incredibilmente tranquilla.
Non sbraitò contro l’imbecille che cercava di sorpassare come se dietro la sua auto ci fosse satana in persona; non imprecò contro la signora immobile sul marciapiede intenzionata a scendere, ma non aveva deciso a che ora; si fermò per farla passare, tanto il traffico non le permetteva di andare troppo in là, ma quella rimase ferma a fissarla sul marciapiede.
Non appena iniziò a muoversi quella pazza con un lungo passo si trovò in mezzo al passaggio pedonale. Frenò bruscamente sentendo un lieve strappo al collo. La signora la ringraziò con un sorriso.
Arrivò al supermercato che erano le sette passate.
Il lato positivo della faccenda era che a quell’ora la maggior parte della gente era già andata a fare la spesa, così con il suo bel carrellino poté prendersela comoda senza dover fare lo slalom tra la folla.
Doveva comprare qualcosa di fresco, perché con quel caldo la fame si era persa un po’ per strada.
Un ometto sulla sessantina la fermò per chiederle il prezzo dei tovaglioli di carta, aveva dimenticato a casa gli occhiali. Glielo disse e lui, di rimando, ringraziò.
Le venne il sospetto di essere vestita come le commesse del supermercato perché poco più avanti una signora anziana le chiese dove potesse trovare il latte.
Indicò dove trovare il latte. La signora per tutta risposta sbraitò che quella non era la marca che cercava e che aveva visto che l’altro latte era lì… non era una vecchia stupida.
Continuò ad inveire anche quando oramai si ero allontanata.
Aveva il latte, un po’ di frutta, mozzarelle, pomodori, del gelato… cos’altro mancava?
Luc!
Cioè non è che mancasse Luc, ma era lì o così le era parso.
Si avvicinò con cautela come farebbe chi si è perso nel deserto ed avvista all’improvviso un’oasi.
Timidamente chiese: «Luc? »
L’uomo si girò.
«No, mi dispiace ha sbagliato persona! » erano due gocce d’acqua.
« Mi scusi! »
Voleva sprofondare. Sperava sinceramente che il ragazzo non avesse pensato ad un tentativo di abbordaggio.
Ma come avevo potuto?
“Dai, su, pensa, cosa avrebbe dovuto farci Luc in un supermercato a mille e cinquecento chilometri da casa sua? La spesa? Un po’ fuori mano, ti pare?”.
Si diresse alle casse senza voltarsi.
Pagò e si diresse all’auto.
Decise di non tornare a casa e poi non aveva neanche fame.
Era ancora chiaro e la serata era calda. Un bel giro in macchina le avrebbe fatto passare la brutta sensazione per la magra figura.
Si ricordò di aver acquistato anche il gelato. Se non si fosse fermata almeno per portarlo in ghiacciaia avrebbe finito per diventare un pozza informe dai colori cangianti.
Così fece. Lasciò l’auto in doppia fila (di posto neanche a parlarne) sperando che non le facessero una multa.
Fece le scale di corsa, pigiò il gelato in ghiacciaia, afferrò al volo una bottiglietta d’acqua e scese a precipizio. Per poco non ruzzolò giù dalle scale.
Al rumore Giulio uscì dal suo appartamento.
Non ci voleva. Continuò a correre sperando di superarlo e così fu.
«Ciao … »
Non gli diede il tempo di dire altro
«Ciao, scusa ho la macchina in doppia fila, scusa! »
Si era resa conto di avergli chiesto scusa due volte, sperando che credesse che davvero le dispiacesse.
Girò per la città senza meta, aveva solo voglia di sentire il vento fresco che entrava dal finestrino abbassato.
Si fermò solo quando avvertì un languorino allo stomaco.
Inconsciamente si ritrovai nel locale in cui aveva conosciuto Franz l’amico tedesco di Giulio.
Trovò parcheggio subito dato che il locale aveva un piazzale riservato ai clienti.
“GRATIS” diceva il cartello. Più in piccolo si poteva leggere che si doveva consegnare lo scontrino della consumazione all’ingresso.
Le andava benissimo perché aveva intenzione di consumare. Eccome!
Entrò titubante e si sedette nel tavolo in fondo ordinando una piadina ed una coca cola. Non aveva nessun accompagnatore molesto ed indigesto da digerire così gli alcolici non erano necessari. Inoltre doveva guidare e l’alcool non l’aveva mai retto bene.
Appena terminato di sbranare la piadina ebbe l’impulso di scendere di sotto per vedere se Franz fosse lì.
No. Non c’era o quanto meno non lo ricordava poi così bene. C’era un  ragazzo che poteva essere lui ma forse no e vista la brutta figura fatta poco prima, non aveva intenzione di bissare. Così con non chalance ritornò su ed andò via.

Lo scontrino l’aveva nella borsa. A trovarlo!
Dopo aver frugato attentamente per qualche minuto lo trovò e lo porse al posteggiatore che le fece segno di entrare aprendo platealmente il braccio destro come invitandola ad accomodarsi nel salone di casa sua.
Non aveva ancora voglia di tornare a casa e non lo fece.
Quella sera attraversò la città come se la vedesse per la prima volta.
Il silenzio che l’avvolgeva la rendeva meno brutta ed egoista.
Quando decise di rientrare erano oramai le due passate anche se il sonno stentava ancora ad arrivare.
Accese il computer e scrisse una mail a Luc.
Qualcosa di vago e spiritoso. O almeno così le sembrava.
Andò a letto. Quella sensazione di mancata stanchezza era solo un’illusione. Appena posò la testa sul cuscino si addormentò.
Il sonno fu profondo ma agitato.
Sognò di ritrovarsi in un supermercato dove tutti i commessi avevano il volto di Luc.
Con l’indice all’altezza del mento lo facevano girare in senso orario e le chiedevano cantilenando «Chi è Luc? Qual è l’originale?»
E sghignazzavano come se qualcuno avesse raccontato loro una barzelletta volgare. 

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