tenete duro che possiamo farcela ad arrivare al week end.
Oggi poi fa particolarmente freddo e sarei rimasta volentieri sotto le coperte.
Intanto vi lascio da leggere il 4° capitolo.
Buona giornata a tutti!!
CAPITOLO 4
Un rumore assordante nel cuore della notte la fece svegliare di
soprassalto.
Spaesata, a tentoni inforcò gli occhiali. La sveglia diceva che erano
le tre.
Cercò di capire cosa stesse succedendo guardando tra le fessure della
tapparella. Era un clacson impazzito. Un rumore continuo le spaccava i
timpani ancora addormentati.
Due uomini erano scesi in strada
e si guardavano attorno.
Si chiese come avessero fatto a vestirsi così in fretta ed avere la
prontezza di uscire di casa nel cuore della notte.
Uno dei due cominciò a farle segno di scendere giù, l’avevano scoperta a spiare dietro le tende.
Ovviamente lei si guardò bene dal farlo. Come era cominciato così il fracasso
finì e nessuno capì davvero cosa fosse successo.
Il mattino successivo era di cattivo umore per aver passato il resto
della nottata in bianco; il tempo non aiutava.
Decise di fare qualcosa di costruttivo ed uscire, l’attesa di quella
telefonata la stava facendo impazzire.
Si vestì senza troppa attenzione e si portò dietro la macchina
fotografica. Avrebbe fatto la turista nella sua città.
Scese a piedi essendo troppo in ansia per aspettare l’ascensore.
Passando sul pianerottolo del primo piano sbucò dal nulla Giulio. Ogni
volta che faceva le scale lui la intercettava e la teneva bloccata per una
decina di minuti cioè fino a che non riusciva ad inventare qualche scusa e
riusciva così a disincastrarsi.
Mise in bella mostra la busta dell’immondizia che aveva in mano
credendo così di scoraggiarlo. Ma invano. Per l’ennesima volta le chiese di
uscire.
Avendo esaurito tutte le scuse e non avendone preparate di nuove gli
disse di sì.
Nello stesso istante in cui aveva pronunciato quel monosillabo si era
già pentita, ben sapendo che stava per andare in contro alla serata più
devastante della sua vita.
Non riusciva a sopportare la sua presenza per dieci minuti di vacui
scambi di battute su un pianerottolo figurarsi cosa sarebbe stato una serata
con lui.
D’ora in avanti non sarebbe mai più uscita di casa senza una buona
scorta di scuse da spiattellare con non- chalance.
Non si poteva dire che fosse brutto. Ma era davvero strano.
Ogni volta che la incontrava le faceva delle domande assurde. Si fece
coraggio oramai non poteva tirarsi indietro inoltre la libertà per quel mattino
era lì a due passi. O meglio ad una rampa di scale.
Uscì dal portone respirando l’aria con il naso e la bocca, cercando di
non pensare a quello che sarebbe successo quella sera.
Aveva deciso che al peggio si sarebbe fatta venire un’emicrania
terribile e si sarebbe fatta riaccompagnare a casa.
Camminò per più di un’ora con la macchina pronta ad immortalare la
città non era successo nulla.
L’unica foto che era riuscita a rubare fu quella di un donna anziana
seduta su una panchina intenta a lanciare delle molliche di pane ai passeri.
Allo stesso tempo cercava, invano, di scacciare i piccioni che venivano
attirati in massa, non lo aveva mai capito, dall’odore del pane o dal rumore
che esso faceva cadendo a terra. Una foto un po’ triste.
Intenta a cercare lo scatto aveva rimosso il clacson della notte
precedente, l’incontro con Giulio, e persino il colloquio.
La riportò alla realtà lo squillo del telefonino.
Lo cercò disperata nella borsa e su quello che sembrava l’ultimo
squillo lo afferrò rispondendo più velocemente possibile.
«Pronto?»
«Signora Giulia?»
“Signora Giulia? Chi sono mia nonna?” pensò.
«Si sono io!»
« Sono il dott. Passeri si ricorda di me?»
« Si certo ! » il ritardatario.
« Abbiamo valutato attentamente la sua candidatura e saremmo felici di
offrirle un impiego presso la nostra sede»
« Sono contenta della vostra decisione»
« Se vuole può venire tra un paio d’ore a firmare il contratto»
Ringraziai e riattaccai.
Cominciò a correre come una matta. Aveva trovato lavoro; si sentì
sollevata e felice.
La giornata stava nettamente migliorando, pensò che tutto sommato
sarebbe sopravvissuta anche alla serata con Giulio.
Aveva voglia di stare in mezzo alla gente e di festeggiare chiamò Stef che
le disse che l’avrebbe raggiunta per la pausa pranzo. Si diedero appuntamento in
un pub vicino al suo ufficio.
Appena la vide l’abbracciò, si sedettero al tavolo indicato e cominciò a raccontarle tutto
partendo dall’incontro che avrebbe avuto quella sera anche perché del resto
c’era poco da dire.
Una volta aveva incontrato anche lei Giulio perciò iniziò a ridere.
Cercò di trascinare anche lei ma rifiutò categoricamente; si offrì però
di sostituirla la prossima volta che avesse avuto un
appuntamento dal dentista.
Pensò che era stata una giornata fortunata, mentre si preparava ad
uscire; magari si sarebbe divertita.
Entrando nel locale prescelto si accorse che alle pareti erano appesi
poster di luoghi esotici e lontani. Avrebbe tanto voluto essere lì in quel
momento. La sua speranza che quella serata sarebbe passata in fretta
l’abbandonava ogni minuto che passava con lui.
Oltre ad avere una serie infinita di difetti era anche un guidatore
aggressivo; volendo usare un eufemismo. Aveva litigato con mezza città nel
breve tratto che avevano percorso.
Ordinò una coca cola.
Mentre le esponeva le sue teorie sull’inutilità della letteratura, del
cinema e della musica, decise che forse era meglio prendere qualcosa di più
forte.
«Non ho mai ben inteso cosa volesse dire commentare un libro, cioè fai
il riassunto?» le chiese spolverando il suo migliore italiano.
«Beh, no, si può commentare il soggetto, il modo di scrivere
dell’autore, i personaggi, i luoghi, le descrizioni.. » lasciò la frase in sospeso attendendo che lui
desse un segno di aver in qualche modo capito ma il suo sguardo rimase vuoto,
perciò decise di cambiare discorso.
« E il cinema ? ti piace ? »
chiese guardandolo speranzosa.
« Veramente non lo seguo molto, mi piace Stallone, Schwarzneger film
così.. »
Cercò di rimare interessata ma le riuscì solo di immergere la faccia
nel bicchiere
Proprio mentre le chiedeva come fosse il suo ragazzo ideale, si accorse
che c’erano delle scale e cambiò abilmente discorso chiedendo cosa ci fosse di
sotto.
« Il biliardo »
Fu la sua salvezza. Non aveva mai giocato ma non poteva essere peggio
di quello strazio.
Propose di scendere e dare un’occhiata.
La stanza era molto più grande aveva tre tavoli da biliardo le
freccette appese al muro e veniva diffusa una musica piacevole.
Giulio salutò un suo amico.
Un tipetto gracile, magrissimo e tinto. Aveva i capelli tinti di biondo
dai quali però cercavano di riemergere le radici dei capelli neri.
«Ciao Franz !»
Si presentò alla bell’è meglio in inglese, lui le chiese se avesse mai
giocato a biliardo.
Fece segno di no con la testa e venne invitata ad una partita di prova.
Si distese sul tavolo con una certa grazia. Ben presto scoprì che si trovava di
fronte ad un ballerino.
Era tedesco e parlava un discreto inglese al contrario di lei che
invece cercava di sopravvivere.
Nonostante l’handicap linguistico la conversazione fu decisamente piacevole.
La serata non fu un completo disastro. Le dispiaceva per Giulio che restò in
disparte seduto su uno sgabello.
Non disse molto neanche in macchina, al ritorno.
Il mattino era fresco. Decise con attenzione cosa indossare; le sembrò
di ritornare al primo giorno di scuola.
Ogni anno il rito si ripeteva. Sua madre la portava a fare shopping
(anche se allora non conosceva quella parola, o per lo meno non la usava ) per
acquistare qualcosa di carino, nuovo sfavillante da indossare il giorno dopo.
Per quella volta però dovette arrangiarsi con quello che aveva
nell’armadio non avendo comprato nulla per l’occasione.
“Mi chiedo come mai si abbia una quantità indescrivibile di abiti da
poter organizzare una sfilata ma non si sappia mai cosa indossare. Ci si riduce
ad indossare sempre la stessa gonna, lo stesso maglione nonostante si
tenti di effettuare quello che i
calciofili chiamerebbero il “turn over””.
Alla fine onde evitare di arrivare tardi indossò il suo completo
preferito e soprattutto ben collaudato.
Arrivò in orario. Ovviamente.
Le diedero il badge con il quale avrebbe avuto accesso ad ogni piano
dell’azienda.
Se avesse voluto sarebbe potuta salire fino al settimo, al secondo, o
al decimo piano.
Non che avesse nulla da fare lì, visto che avrebbe lavorato al terzo
piano.
Percorse un lungo corridoio. Diverse porte si affacciavano. Spinta
dalla curiosità sbirciava all’interno degli uffici. Non che conoscesse qualcuno
ma aveva voglia di vedere con chi avrebbe lavorato. Dopo un po’ quelle facce
assolutamente anonime le sarebbero diventate familiari.
Come quando si sale su un autobus e non si conosce nessuno. Se però si
fa quel percorso per diverso tempo, sempre lo stesso, si comincia a riconoscere
qualche volto. Non si associa al volto un nome ma ci si sente legati a quella
persona che ogni giorno fa la tua stessa
strada sopporta l’autista di turno (che di solito guida come un pazzo), la
confusione e l’orrore di dover attendere alla fermata senza sapere quando e se
la corsa che stai aspettando arriverà, congelandoti se è inverno e
sciogliendoti come un cono gelato all’arrivo della bella stagione.
Ritornò in sé quando una voce le chiese se avesse perso qualcosa.
«No» rispose con garbo «oggi è il mio primo giorno e sto cercando la
signora Scoglia»
« Oh, bene, il suo ufficio e due porte indietro, quello con la targa
“sala riunioni” è arrivata da poco e si sta ancora sistemando».
Ringraziò e si diresse verso la porta. Bussò con delicatezza.
La signora doveva avere una quarantina d’anni o forse un po’ di più ma
portati molto bene. Doveva fare palestra e sicuramente spesso approfittava
dell’invenzione della lampada abbronzante. Il suo viso era nero come dopo due
settimane al mare. Forse c’era stata davvero. Era molto elegante. Quando entro le sorrise e si presentò.
Le spiegò quale fosse la sua mansione e ribadì che il contratto durava
sei mesi ovvero il tempo che la signora che sostituiva tornasse dalla
maternità.
Mentre era lì alzò la cornetta e comunicò a qualcuno che era arrivata.
Le spiegò che la persona che stava arrivando era la sua responsabile e
che se avesse avuto dei problemi avrebbe potuto rivolgersi a lei.
Problemi ? Che tipo di problemi ?
La domanda nacque spontanea nella sua testolina ma non disse nulla.
Arrivò poco dopo una donna di età non precisata, alta, molto magra ed
un grosso paio di occhiali, troppo grandi per il suo viso sottile. Era davvero
pallida.
« Buongiorno sono la signora Pittima»
« Buongiorno».
La seguì senza fare conversazione, non sembrava che a lei dispiacesse.
Aveva l’espressione di chi avesse a che fare con una seccatura.
Non avrebbe avuto un ufficio tutto suo, del resto lì nessuno lo aveva.
Entrarono in un open space come quelli che si vedono nei film
americani.
Un ampio spazio luminoso che comprendeva una decina di scrivanie tre
stampanti ed una macchina fotocopiatrice.
Le mostrò la sua scrivania e cosa avrebbe dovuto fare. Poi si
allontanò.
Riuscì a sentire distintamente le sue parole: « Mi tocca fare la balia!
»
Non sapeva se parlasse di lei ma la cosa le diede fastidio.
Accanto a lei era seduta una donna sulla quarantina che si presentò non
appena il capo si allontanò.
Notò in quel preciso istante che tutte gli impiegati erano donne. Le
tornò subito in mente la frase “ in caso di problemi”.
Dal nulla sentì improvvisamente sbraitare.
Si guardò attorno cercando di capire. Tese l’orecchio per identificare
almeno qualche parola ma la persona - se così si poteva chiamare - che gridava
parlava troppo velocemente e riuscì ad intendere nulla.
Timidamente chiese alla collega cosa stesse succedendo.
Donatella – così si chiamava - sorrise e le disse che presto si sarebbe
abituata a vedere quel teatrino. Rimase stranita, non aveva mai sentito
vomitare odio su qualcuno in maniera così serafica.
Ed erano solo le nove del mattino!
Che fosse un capro espiatorio? Un signor Malaussène in persona. Quel
personaggio, partorito dalla mente di Pennac, che all’interno di un’azienda si
prende la colpa di tutto rimanendo vittima di strigliate con i fiocchi.
Esistevano davvero? Chi mai poteva ricoprire un ruolo tanto sgradevole.
Poco dopo una signora minuta a testa china entrò nella stanza. La
Signora Malaussène in persona.
Una signora anziana entrò dietro di lei. La signora Pittima che passava
di lì in quell’istante si prese la briga di presentarla, come se volesse
distrarre l’attenzione da quanto successo.
«Signora Spugna le presento la dottoressa Serafina»
A sentirsi chiamare dottoressa ebbe un moto di orgoglio.
«Buongiorno»
Quel “buongiorno” anche se detto a voce bassa e con molta calma era
molto simile alle “parole” urlate poco prima. Aveva riconosciuto il timbro ed
il tono di voce. Era lei che aveva strillato contro quella povera donna
facendola regredire agli albori della sua infanzia. Anche se, pensandoci bene,
mai nessuno le aveva urlato in quel modo.
Salutò e si ritrasse coraggiosamente dietro la scrivania. Indietreggiò
tenendo lo sguardo fisso sulle due donne che complottavano in silenzio.
Provò a chiedere nuovamente alla collega:
«Ma mi spieghi cosa succede? »
«Vedi…» le disse come una maestra che spiega l’alfabeto ad uno scolaro
un po’ tonto
«questo accade almeno una volta al giorno, se va bene»
«Sempre con la stessa persona? » egoisticamente pensò a sé stessa.
«Di solito sì … »
I puntini di sospensione erano ben stampati nel tono di voce e non
promettevano nulla di buono.
Indicavano che potevano cogliere chiunque ed in qualsiasi momento.